Intervista al regista Enrico De Angelis 

 
a cura del Comitato direttivo di 
 
SOGLIE. RIVISTA DI POESIA E CRITICA LETTERARIA 
 
 
La tua ultima avventura cinematografica si basa addirittura su Eliot. E non hai affrontato uno dei suoi testi teatrali, cosa che si potrebbe capire e che è stata anche tentata con successo, ma il suo poema La terra desolata. Non è stata un′impresa temeraria?
Peggio: è stata un′impresa da incosciente. Nessun cineasta – tutti più saggi di me – ci aveva mai provato prima.
 
Lo spettatore che abbia letto il poema si accorge subito dei cambiamenti apportati, in particolare della riorganizzazione dell′insieme: nel tuo film le parti non si susseguono come nel poema. Per esempio l′episodio delle tre figlie del Tamigi, che nel poema si trova ben oltre la metà (v. 292 sgg.), qui lo si ha già nella seconda scena; la cartomante, che nel poema compare subito dopo la ragazza dei giacinti, cioè molto vicina all′inizio, nel tuo film la vediamo dopo le figlie del Tamigi; versi (v. 19 sgg.) che nel poema si leggono immediatamente dopo la comparsa dell′aristocratica lituana, nel tuo film li si ascolta solo nella parte finale; la donna allo specchio e la scena nel pub nel film sono successive a quella con la dattilografa, mentre invece nel poema la precedono di un bel po′. E potrei continuare per un pezzo. Perché hai ritenuto necessario intraprendere questo riordinamento?
Per la natura stessa del film. Il film è costretto a una sua autonomia perché le sue immagini si vedono immediatamente, non sono il risultato di una ricostruzione che il lettore esegue nella mente man mano che procede nella lettura. E le immagini vanno legate fra di loro. I mezzi per legarle possono anche avere gli stessi nomi retorici dei testi scritti (leggo di metonimia, sineddoche e altre cose), ma solo i nomi sono uguali; in un film a un′immagine segue comunque un′altra immagine, non altre parole da leggere e da immaginare. D′altra parte il film usa anche parole e suoni, quindi i legami sono più vari che nello scritto. In tempi recenti le opere narrative (scritte) cercano di mettersi al passo integrando le immagini, ma siamo ben lontani dal tipo di integrazione che riesce al cinema. Abbandoniamo il campo teorico e veniamo al concreto. Io so legare le immagini attraverso una storia dal respiro globale, cioè che cominci all′inizio e termini alla fine. Esistono sì i flashback, le anticipazioni e quant′altro; ma anche questi mezzi presuppongono un continuum: i flashback sono immagini di quel che è avvenuto prima, le anticipazioni sono immagini di quel che avverrà dopo. Interrompono il continuum solo perché lo presuppongono.
 
Dunque il tuo film racconta una fabula? Ce la vuoi esporre?
Volentieri. Il film è organizzato secondo un prologo, una giornata e un lungo epilogo. Il prologo presenta aspetti e momenti ambigui di due esistenze: un'aristocratica dalla mobile vita parla di sé come se fosse di casa ovunque e invece lascia nello spettatore l′impressione che forse non lo è da nessuna parte; una giovane donna cerca di riaccendere un amore spento, ma la risposta del suo amato (che non è nemmeno presente) resta legata al passato. Già nel prologo compare Tiresia, testimone quasi sempre muto di vari episodi.
Il resto del film si svolge nell′arco di una giornata. Al mattino, in uno squallido paesaggio tre ragazze (le “figlie del Tamigi”) riflettono sulle loro tristi storie sentimentali, dalle quali pare che non possa esserci scampo. Una cartomante, che disapprova guardandole da una finestra, imbroglia poi il cliente sottraendogli la carta decisiva, il segno della fertilità (l′impiccato).
Il cliente imbrogliato si accompagna a un amico e insieme incontrano Flebas, il marinaio fenicio che ha vissuto lunghe vite. Costui fa strane proposte, cercando di sostenerle con una cospicua somma di denaro. L′amico lo deride e lo lascia. Lo spettatore viene a sapere che la morte per acqua, da cui la cartomante aveva messo in guardia il cliente, è invece il destino di Flebas. Il cliente e il suo amico proseguono ma si separano ben presto: l′amico si reca dalla signora Porter e sua figlia, cioè in un bordello. Il cliente va a casa di una dattilografa, con cui ha un appuntamento. Qui ha luogo un′avventura non meno triste di quelle raccontate finora. A tarda sera la scena si sposta nella casa di una nobildonna, guardata a vista da due signore che passano il tempo giocando una partita a scacchi. La nobildonna, intenta alla toeletta, è coinvolta in un impensabile dialogo con un uomo amato, non presente; il colloquio è di fatto un soliloquio della donna davanti allo specchio. E come tema ha la morte; forse l′amato stesso è morto. Un misterioso accenno richiama nuovamente la morte per acqua; e il monologo si chiude, in maniera ancora più allusiva, con un accenno a occhi di morti, “occhi senza palpebre”.
Ormai è notte. In tutt′altro ambiente due donne del popolo stanno sparlando di una loro amica, ridotta male da aborti e gravidanze. Malignamente pensano a come sarà difficile la convivenza col marito, appena congedato da sotto le armi. Tiresia fa il punto della situazione. La folla della città in cui si sono svolti questi momenti pare più morta che viva; e tuttavia nella città stessa sembrano essere possibili momenti di calore umano, per quanto inumana la città appaia nel suo complesso. Dunque deve essere possibile un qualche esito positivo, che il finale cerca di individuare.
Viene dapprima ribadito che il punto di partenza è disperato: una prigione, aridità, sterilità. Poi Tiresia apre uno spiraglio: la nostra vita è valsa la pena per quei momenti nei quali abbiamo seguito la pienezza del nostro cuore, anche se sono stati rari e non lasceranno traccia. Ora possono aprirsi delle prospettive. Dapprima le figlie del Tamigi cercano di uscire dalla loro situazione e, sotto lo sguardo benevolo di Tiresia, si arrampicano fuori della loro strettoia; un misurato sorriso indica la possibilità di una riuscita (alcuni cenni lasciano interpretare l'arrampicata fra le rocce come ascesa del monte del purgatorio). La coppia su cui le due donne del popolo stavano spettegolando pare trovare un suo equilibrio, osservata da Tiresia e soprattutto aiutata da un vago incontro su una strada polverosa, non definito eppure promettente (Eliot allude all′incontro di Cristo coi discepoli sulla via di Emmaus). Il rematore, che avevamo visto all′inizio portare sul lago l ′aristocratica e l′accompagnatore, ora rema felice davanti alle sue reti da pesca. E finalmente possono cinguettare le rondini, finora costrette a ricordare “a orecchi sozzi” il mito di Filomela (la donna violentata e mutilata dal cognato, poi trasformata in rondine) e Progne (la sorella vendicatrice, trasformata in usignolo).
 
Perché questo continuum? Non è un tradire il poema? Sai bene che non tutti i critici sono d′accordo nel considerare La terra desolata un vero poema; alcuni vi vedono una semplice raccolta di poesie, qua e là blandamente tenute insieme da un tema comune, senza una vera progressione. Anche se questo atteggiamento non è della maggioranza degli studiosi, tuttavia in esso c′è del vero almeno nel senso che uno sviluppo costante non è immediatamente coglibile.
Effettivamente il poema procede in modo complessivamente diverso da come procedo io nel film. In molti luoghi del poema trovo una tesi immediatamente seguita da un′antitesi, a sua volta subito smentita. Consideriamo la parte iniziale. Entra in scena una nobildonna lituana, esponendo considerazioni disparate (v. 8-18). I versi che seguono tali considerazioni (19-30) sembrano darne una valutazione: sono immagini frammentarie, tali perché noi, persi nel deserto della nostra esistenza, siamo incapaci di sintesi; tuttavia (proseguono questi versi che mi pare giusto intendere come valutativi) esistono anche momenti di sollievo: nel mezzo delle rocce aride, una offre un riparo all′ombra. Ebbene, nemmeno questo riparo è così promettente, perché la voce parlante e ammonente vuole mostrarci la paura attraverso la quale cammina la nostra vita tra la sera e il mattino, tra la nascita e la morte. A questo punto tutto il quadro cambia e, dopo quattro versi che citano Tristano e Isotta, siamo confrontati con un episodio di amore fallito attraverso le voci di due imprecisati dialoganti (v. 35-41), seguiti da un′altra citazione dalla stessa opera di Wagner, che non lascia dubbi sul fallimento.
Dunque, il poema non ha momenti di sintesi che siano basi per una nuova progressione; ha invece continue negazioni di sintesi possibili, per quanto momentanee e parziali; e alle negazioni seguono spostamenti di piano. Può darsi che esista un linguaggio cinematografico a ciò adeguato; ma io non lo posseggo e non so nemmeno immaginarlo. In altri film, per la verità, ho introdotto delle fratture sotto forma di film che riflette sul proprio farsi; momenti di metacinema che vanno dall′esterno del film al suo interno e viceversa. Ma eravamo nel grottesco, mentre in questo poema non vedo spazio per il grottesco. Perciò ho preferito quel tanto di continuum che il poema consente, anche se non è moltissimo: ho raggruppato i momenti negativi e ho spostato al finale i momenti positivi. Almeno grosso modo.
 
Non c′è pericolo di stravolgimenti? Sei sicuro di averli evitati? Se il film promette l′adesione a un testo letterario, questo testo vogliamo riconoscerlo. Il cinema avrà diritto a tutta l′autonomia che vuole e che vuoi, ma la fedeltà non è meno importante.
Uno stravolgimento voglio concederlo subito. Nella parte finale cito i versi 377-78:
 
A woman drew her long black hair out tight   
And fiddled whisper music on those strings
 
Una donna disciolse la sua lunga chioma nera
E arpeggiò su quelle corde sussurri musicali.
 
Quei versi fanno parte di una visione infernale (377-84). Io invece li cito con significato inconfondibilmente positivo, segnando il momento in cui l' arrampicata sul monte del purgatorio si manifesta come promessa, presto potenziata dall′incamminarsi di altri personaggi sulla via di Emmaus. Pertanto si tratta di una selezione e rifunzionalizzazione talmente spinta da poter passare per stravolgimento. Non me ne pento: il momento di svolta verso il positivo meritava di essere sottolineato e quei versi hanno fatto al caso. A parte questo, stravolgimenti non ne vedo proprio. Ci sono certamente delle interpretazioni marcate, questo sì, nelle quali non si lascia spazio ad ambiguità. Ma sono appunto interpretazioni.
 
Il tuo film è diviso in capitoli, ognuno con un suo titolo. Sono ben 13 capitoli, contro i cinque di Eliot. Eppure non è un film lungo. Inoltre un solo capitolo ha lo stesso titolo che in Eliot. Come giustifichi questo notevole numero e anche la discrepanza nei titoli?
È vero, solo il capitolo Morte per acqua conserva il titolo di Eliot. Negli altri casi il titolo riprende versi o espressioni del poema (Casa Porter, L′ora viola, Occhi senza palpebre, E ha solo 31 anni!, Quanti morte ne ha disfatti, Dalla prigione, Come le rondini), oppure indicazioni date da Eliot nelle note al poema (Tre figlie del Tamigi). In altri casi ancora ho dato un titolo per spiegare il contenuto (Due ricordi ambigui, La carta negata, L ′ascesa, Un incontro). In tutti i casi il titolo vuole essere un aiuto alla comprensione. Siccome le situazioni sono numerose, mi sono trovato nella necessità di abbondare con i titoli e con i capitoli.
 
Non c′è un gusto un po′ rétro?
Già. L′uso ci riporta ai tempi del film muto, quando le numerazioni delle parti apparivano effettivamente sullo schermo. Ma non è un film muto.
 
Non ritieni che il continuum sia stato intaccato da questa proliferazione di capitoli?
Il continuum è da intendere cum grano salis. Io ho raccontato una giornata, dal mattino alla notte, sfruttando indicazioni temporali contenute nel poema. Ho anche legato alcuni episodi fra di loro facendovi apparire lo stesso personaggio; è il caso di chi si vede per la prima volta come cliente della cartomante e poi via via fino in casa della dattilografa; è il caso di Tiresia in più punti, soprattutto nel finale. Ma le situazioni sono pur sempre differenziate, i momenti della giornata sono vissuti da persone diverse, in ambienti diversi, con atteggiamenti diversi.
 
Il film non si intitola semplicemente La terra desolata ma Frammenti da La terra desolata. Hai accennato a quali parti del poema hai incluso; puoi specificare che cosa hai escluso e perché?
Dei 433 versi del poema ne vengono pronunciati 215; quasi la metà. Un′altra ottantina sono connessi a immagini senza parole. Dunque nel complesso la scelta ha inglobato i tre quarti del poema. Sono rimasti fuori dei versi che sarei stato capace di illustrare solo con immagini ridondanti, quali i versi 340-58 sulle rocce aride. Ho dovuto anche escludere versi per la cui traduzione in immagini mi mancavano i mezzi finanziari; è il caso – ma non il solo – dei versi 279-89, il viaggio di Elisabetta e Leicester sul Tamigi. Più rilevanti mi paiono due serie di esclusioni: quella della città – meglio ancora, della periferia industriale – e quella dei miti orientali, così presenti nell′ultima parte del poema. Non mi sento di casa in questi miti, perciò non ho preso in considerazione di trattarli. Invece mi rammarico di non essere stato in grado di render conto della città industriale, quale appare per esempio nei forti versi 173-95 e 266-76. Tutto quel che ho fatto è stato associare un po′ di sozzura alla scena delle figlie del Tamigi. Un maggiore spazio concesso a questa dimensione avrebbe cambiato non poco l′insieme del film. In quei versi compaiono anche aspetti del mito del re pescatore, che invece nel mio film si rivelano solo all′ultimo, solo nel loro aspetto positivo o almeno di preludio a una realizzazione positiva, senza essere passati attraverso la decadenza della periferia industriale.
 
Cospicue parti spostate, attribuzioni di versi decise autonomamente dal testo, personaggi aggiunti, soppressioni importanti. Gli interventi sulla base di supporto sembrano massicci. Ritieni che il tuo film sia ancora un ′interpretazione di Eliot o che ne sia un libero adattamento?
In nessun caso si tratta di quel che si intende per libero adattamento; non è un film che qua e là possa ricordare Eliot e per l′essenziale se ne vada per conto suo. Il film ha la sua natura e la sua legge, questo film ha un ritmo suo proprio; ma può essere considerato un′interpretazione del poema. Non è nemmeno un libro illustrato, con le figure messe lì per agevolare l ′immaginazione nei punti più difficili, così che testo e immagini si aiutino a vicenda. Non ho concepito un film puramente illustrativo. Quelli illustrativi che ho visto (riferiti ad altre opere) non mi appaiono autonomi e in fin dei conti sono anche inutili; chi ha un minimo di immaginativa non ne ha bisogno. Non ho voluto appendere qualche immagine intorno a delle parole. Chi guarda il mio film vede un film autonomo, che è un ′interpretazione di Eliot. Quel che c′è in più e quel che c′è in meno discendono nella stessa misura dall′autonomia e dall′interpretazione.
 
Non vorremo affrontare discorsi teorici, che hanno già riempito scaffali di biblioteche. Possiamo vedere in concreto che cosa è risultato dal congiungersi di queste due linee, autonomia e interpretazione?
Farò degli esempi. La scena della cartomante si svolge in un salotto liberty, nel quale lei compare pesantemente abbigliata. Di fronte a lei è un cliente (non menzionato da Eliot). La cartomante comincia col non mostrare alcuna solidarietà con le tre figlie del Tamigi, la cui scena ha appena preceduto la sua comparsa. Eliot scrive che la cartomante è “fortemente raffreddata” (v. 44). Uno studioso sostiene che all′epoca con quell ′espressione si alludeva a malattie veneree; non porta prove di questa asserzione, ma sia pure: non saprei come presentare una cartomante sifilitica, perciò ho rinunciato a quest′aspetto. Del resto Eliot non calca la mano su cose del genere; le prostitute Porter sono da lui presentate mentre si lavano i piedi, non i genitali, come ci si potrebbe aspettare e come voleva esplicitamente la canzone australiana da cui cita (v. 201, con relativa nota di Eliot). Dunque niente sifilide; e anche niente infreddatura, se questa è invece da intendere alla lettera, perché mi è parsa secondaria rispetto alla drammaturgia dell′insieme. La cartomante è solitamente interpretata come una figura di degradazione: degradazione del rituale divinatorio, o addirittura della natura. L′aspetto della ex madre terra è alluso dalle statuette che si vedono sul tavolo. Ma l′attenzione dello spettatore è richiamata soprattutto sulla disonestà e sull′avidità. La cartomante dice di non vedere la carta con l′impiccato; io mostro che la vede benissimo, ma vuole nasconderla al cliente. Di conseguenza lo distrae, facendo cadere una rosa che lui si china a raccogliere, per avere il tempo di nascondere la carta. Questa carta è interpretata come simbolo dalla fertilità, del rinnovarsi della natura. È la fertilità che la cartomante, la natura degenerata, nega. Lo spettatore che non sappia niente di tarocchi – e io stesso non ne sapevo niente prima di lavorare a questo film – può non capire questo aspetto; ma sono sicuro che capisce come ci sia un qualche imbroglio. Durante la consultazione, la cartomante profferisce una serie di sentenze nulladicenti; l ′unico avvertimento serio, di guardarsi dalla morte per acqua, scopriremo presto che va fuori bersaglio. Il “grazie” da lei pronunciato l′ho inteso non come il segnale di operazione terminata, di obbligazione per l′attenzione prestatale, ma come risposta a un pagamento, avidamente afferrato prima che l′imbrogliato cliente protesti per la prestazione nulla.
Faccio ora un secondo esempio. Presento la donna allo specchio come intenta in un soliloquio sulla morte (il modello iconografico è dato da un celebre quadro di Dante Gabriele Rossetti, Lilith). Lei si fa le domande, lei si dà le risposte. Non parla che con se stessa e più precisamente con la propria immagine allo specchio. Ritengo che ciò sia giustificato dai tanti accenni alla morte, contenuti dapprima nelle risposte e infine anche nelle domande. La prima risposta colloca la situazione lì dove i cadaveri sono spolpati dai topi (vv. 115-16). Eliot stesso, in una nota, insiste su questa connessione funerea. Più in là, la risposta cita alla lettera un verso della cartomante (125; cfr. 48), che si riferiva al marinaio fenicio annegato, lasciando intendere un nesso fra quella morte e l′attuale situazione; un nesso che io esplicito facendo rivedere la scena. A questo punto l′interrogante chiede all′interrogata, cioè a se stessa, se è ancora viva. Non ne pare molto convinta, perché il soliloquio termina parlando di occhi senza palpebre; possono essere occhi di morti, non di vivi. Per queste ragioni non mostro un interlocutore; la donna parla a se stessa, forse rammentando un morto; forse parla alla memoria del marinaio fenicio o di qualcuno che gli era legato; non si sa e dunque va lasciato nel vago. La simbologia della morte si accompagna a quella della vita: agli amorini, ricordati da Eliot, si associano cose da lui non menzionate: melagrane, clessidra, farfalla, unendo amore e morte. Non si vede un interlocutore, e invece si vedono due signore che giocano a scacchi. La giustificazione è data dalla fonte letteraria di Eliot, nella quale una mezzana trattiene agli scacchi una suocera, affinché questa non noti i traffici della nuora con l′amante. Lo spettatore non legge note a piè di pagina ed è importante che capisca le immagini anche se ignora quanto appena detto. Vede dunque due signore che si scrutano a vicenda e tengono sotto osservazione la donna allo specchio, mentre la loro partita prosegue fino allo scacco matto del bianco al nero. I gesti lenti suggeriscono che qui non si tratta di una semplice partita; e chi ha visto Il settimo sigillo di Ingmar Bergmann ricorderà la partita a scacchi giocata dal cavaliere con la morte; quindi sommerà questo ulteriore simbolo di morte a quelli già visti.
Ancora un esempio, quanto mai semplice. Nel poema “le tre figlie del Tamigi […] parlano l′una dopo l′altra”, scrive Eliot stesso in nota, precisando, a scanso di equivoci, di averle modellate sulle wagneriane figlie del Reno; che il modellarle sia un capovolgimento è cosa che il lettore nota subito. Nel poema non si sa dove si trovino queste figlie del Tamigi, né che cosa stiano facendo. Al lettore va bene così. Va anche bene che i versi cantati in Wagner dalle figlie del Reno, nel poema non risultino attribuiti con chiarezza a qualcuno; il lettore può decidere se quei versi (277-78; 290-91; 306) siano cantati dalle figlie del Tamigi o se invece non siano un suggerimento generico. Sullo schermo queste cose non possono restare vaghe. Le ragazze vanno collocate, e io le ho collocate su una riva sporca, essendo figlie di un triste Tamigi. Devono fare qualcosa; anche se non fanno nulla e se ne stanno apatiche a prendere il sole, quel nulla deve essere mostrato e paradossalmente diventare qualcosa. Io le ho mostrate mentre una gioca ossessivamente con un pallone, un′altra si cosparge altrettanto ossessivamente di crema, un′altra ancora ferma uno sconosciuto per chiedergli una sigaretta e poi non lo degna né di uno sguardo né di una parola. Isolate, le ragazze nemmeno parlano fra di loro, ma ognuna riflette per conto proprio, sole anche se sono in compagnia. Ho ritenuto di dover dare l′idea di situazioni senza speranza. La musica l′ho messa come sottofondo. In conclusione insisto: niente libero adattamento, ma interpretazione.
 
Hai aggiunto dei personaggi ma hai anche operato delle fusioni. Come è avvenuta la distribuzione dei ruoli?
Per Tiresia ho seguito l′indicazione di Eliot nelle note: Tiresia (scrive) è lo spettatore che conferisce unità a tutte le altre figure; la sostanza del poema (continua) è quel che Tiresia vede. A leggere il poema, ciò si percepisce poco; Tiresia viene nominato e fatto parlare esplicitamente solo  nell′episodio della dattilografa. Io ho cominciato col farlo apparire un po′ dovunque, dal capitolo iniziale, in cui osserva Ofelia, alla lunga parte finale, in cui fa da raccordo fra i vari momenti. È  anche    l′ultima   figura  umana ad      apparire.  Inoltre   conclude   l′episodio del bordello; l′ho fatto sedere sulla riva del lago a piangere, spostando su di lui un verso attribuibile al narratore (182) e avvicinandogli versi che si riferiscono alla leggenda di Filomele (203-04). Questa leggenda, a sua volta, l′ho illustrata attraverso voli di rondini e, nell′episodio della donna allo specchio, in cui ritorna, mostrando un′iconografia celebre, che comprende Rubens e Sebastiano del Piombo. I suoni onomatopeici “per orecchi sozzi” dei versi 103 e 203-04 li ho antropologizzati. Ofelia l′ho fatta apparire alla fine della scena nel pub, sfruttando un verso (172)   assegnatole   da    Shakespeare  nell′Amleto    e  citato  da  Eliot, l′ultimo verso che Ofelia recita sulla scena, prima del suicidio. Ne ho indicato la morte facendone    dissolvere   il   primo    piano    su   un  celebre  quadro   di  John   Everett   Millais. L′abbigliamento che ha in esso mi ha poi suggerito di identificarla con la ragazza dei giacinti (v. 36), comparsa nel primo capitolo.Ho messo in successione immediata i tre momenti in cui compare Flebas. In tal modo ne ho sintetizzato la storia, la cui fine è anticipata confusamente dalla cartomante e poi misteriosamente richiamata nel soliloquio della donna allo specchio. Ritengo che in questo modo la breve e significativa storia sia chiara allo spettatore nella sua importanza.
Un altro raccordo narrativo è dato dal cliente della cartomante. Appare dapprima come cliente pagante e imbrogliato, poi nell′incontro con Flebas, quando lo apostrofa con versi che Eliot in realtà attribuisce al narratore (69-75) e che trattano ancora del mito della fertilità, fraudolentemente negato dalla cartomante. Il cliente si sostituisce al narratore anche nella scena muta con Flebas (207-14) e infine   rivela   di   essere   “il   giovanotto   forunculoso”   (231)  nell′avventura con la dattilografa. Ma il problema è Tiresia. Solo nell'episodio della dattilografa gli vengono attribuite delle battute. Io invece ho dovuto legarlo a dei versi in più occasioni. Per il bilancio della situazione che fa al termine della giornata narrata, avevo a disposizione solo versi del narratore; mi sono sentito di legarli a lui per la natura del loro linguaggio; un gruppo di versi è infatti una citazione da Dante (62-64), un altro è citazione da S. Agostino in inglese arcaico (307-11). Il gruppo che ho collocato in mezzo a questi due (259-63) è la conclusione dell′episodio con la dattilografa, in cui Tiresia è comparso e ha parlato; quindi potrebbero ancora essere versi riferibili a lui.
 
La musica ha una parte importante in questo tuo film. Quale musica hai scelto e con quali criteri la hai utilizzata?
Eliot cita più volte Wagner: L′oro del Reno, Tristano e Isotta, Parsifal. Ho seguito e sviluppato queste indicazioni. La musica fa da sottofondo e da raccordo. Il preludio all′Oro del Reno e la prima scena della stessa opera vanno dai titoli di testa del film, al capitolo con nobildonna e Ofelia, alle tre figlie del Tamigi (è nel loro contesto che Eliot lo cita), all′inizio della scena con la cartomante. La marcia funebre di Sigfrido, dal Crepuscolo degli dèi, va dalla fine della scena della cartomante a quella della morte per acqua, al bordello. La dattilografa stessa fa girare un CD con il quartetto di Schubert La morte e la fanciulla, di cui faccio ascoltare il secondo movimento, che continua nella prima parte della scena con la donna allo specchio. Niente musica fino alla fine della scena nel pub, quando la morte di Ofelia è commentata dalle note della morte di Isotta. A Tiresia che fa il punto della situazione ho voluto mettere come sottofondo    una   musica   affermativa,  la   Sinfonia   dal  nuovo  mondo   di   Antonín   Dvořák.   L′Incantesimo del venerdì santo, dal Parsifal, una musica che promette redenzione, lega tutta la parte finale. Dunque complessivamente la musica connette le situazioni, o che sia commento (come è quasi sempre) o che entri inizialmente come parte della vicenda (nel caso di Schubert) per poi passare a una funzione connettiva.
Lo stesso devo dire di alcuni importanti rumori: le rondini cominciano il loro stridìo nel bordello, lo proseguono mentre si vede Tiresia tristemente seduto in riva al lago, e lo continuano fino ai primi secondi della scena con la dattilografa; la connessione dovrebbe risultare chiara. Gli stessi rumori si hanno durante la scena della donna allo specchio, quando viene illustrata la saga di Filomele; anzi essi cominciano appena finisce Schubert, ponendo così una doppia connessione con quanto precede. Se consideriamo poi che in questa scena vengono citate la scena della cartomante e la morte per acqua, se ne ricava che la scena della donna allo specchio è quella con le maggiori connessioni.
 
Constato che hai messo mano alla traduzione. Che cosa ti ha spinto a farlo? Perché non hai semplicemente preso una delle traduzioni esistenti, alcune delle quali fatte da fior di anglisti?
Nessuno mi prenderà per anglista, ne sono certo. Ho consultato tutte le traduzioni italiane di cui sono venuto in possesso, scegliendo le soluzioni più convincenti. C′è un problema di fondo. Lo spettatore non solo non legge note a piè di pagina, ma nemmeno può tornare indietro per riascoltare e ricostruire un giro di frase che non abbia afferrato subito. La traduzione non deve snaturare il testo, ma deve essere comunque chiara ed evidenziare quel che va evidenziato. Ha altre esigenze rispetto alla traduzione destinata alla stampa.
Le difficoltà sono cominciate presto, già con le figlie del Tamigi. Queste sono tre ragazze del popolo, per le quali Eliot usa registri linguistici complessi. La prima figlia comincia con un verso (292: “Trams and dusty trees”) che ho sacrificato perché avrebbe richiesto quella prospettiva di città industriale che invece non ho adottato; perciò nel film comincia a parlare con una parafrasi di Dante: “Siena mi fe′, disfecemi Maremma”, che diventa “Highbury mi fe′, disfecermi Richmond e Kew.” (293). Non veniamo a sapere che cosa sia successo a Kew, sappiamo invece di Richmond. La ragazza sta evidentemente ricordando la sua prima esperienza sessuale, di cui ha un cattivo ricordo. La frase usata in italiano per queste situazioni (“allargai le gambe”) prende il posto della analoga inglese (“I raised my knees”). Si trattava poi di far notare la singolarità della situazione (“Supine on the floor of a narrow canoe.”) e per questo ho messo in risalto la strettezza della barca, ritardandola nella traduzione (“rovesciata sul fondo di una barca. Era anche stretta.”). Per le altre due figlie del Tamigi le cose sono state meno difficoltose ma non banali. Non è stato troppo difficile riportare la seconda a un registro stilistico adeguato. La conclusione della sua battuta
 
After the event    
He wept. He promised ‘a new start.’   
I made no comment. What should I resent?
 
è pertanto diventata:
 
Dopo il fatto
lui pianse. Mi promise una vita nuova.
Io non feci commenti. Cosa mi arrabbiavo a fare?
 
Ma della terza figlia ho dovuto sacrificare il discorso ellittico per renderlo comprensibile immediatamente. La sua battuta (300-05) è:
 
“On Margate Sands.   
I can connect   
Nothing with nothing.   
The broken finger-nails of dirty hands.   
My people humble people who expect   
Nothing.”
 
Ho inteso la battuta come un racconto di cose ancora meno dicibili di quanto raccontato dalle altre due ragazze, sia perché più dolorose, sia per l'incapacità della ragazza a raccontarlo: lei non sa spiegare perché sulle sabbie di Margate sia successo quel che è successo. E l'ellissi del verbo nell'ultima frase mi pare sottolineare il suo penoso mutismo. Però mi è parso che mantenere l'ellissi del verbo nella prima frase avrebbe richiesto un abbozzo di dialogo che non si inseriva nell'impostazione data alla scena; qualcuno avrebbe dovuto far mostra di chiederle, magari solo con un cenno del capo: “Dove è successo?” e la risposta avrebbe potuto elidere il verbo. Soppresso l'interlocutore, il verbo diventava necessario. Nell'ultima frase, poi, non riuscivo a dare una traduzione non ridicola senza il verbo, perciò ho dovuto aggiungerlo. Ecco il risultato:
 
Successe sulle sabbie di Margate.
Non so rimettere
le fila assieme.
Unghie rotte, mani sporche.
I miei sono povera gente, che non si aspetta
niente.
 
In alcuni casi sono intervenuto perché io stesso volevo capire meglio di che cosa si trattasse. “Tu che volgi la ruota” (320) mi diceva poco su chi deve immedesimarsi nel marinaio fenicio; ho inteso quella ruota come ruota del timone e ho tradotto “tu che manovri il timone”.
Un caso buffo è stato quello della “hot water” di cui parla la donna allo specchio (v. 135). Volendo capire di che acqua si trattasse e perché sia hot proprio alle dieci, ho chiesto soccorso a Fausto Ciompi, il quale ha scorso alcuni commenti, scoprendo che quest′acqua combinava di tutto, diventando di volta in volta un purgante, l′acqua di un bagno approntato per suicidarsi, una qualche acqua metafisica degradata e forse altro ancora. Nell ′impossibilità di decidere se fosse – molto banalmente – acqua per il tè oppure per il bagno, ma essendo comunque hot e non semplicemente calda, l ′ho messa a bollire (“Alle dieci l′acqua a bollire”); l′importante è che allo spettatore-ascoltatore si comunichi l′idea di un gesto abitudinario.
In un caso apparentemente complesso è stato invece facile ottenere una traduzione chiara e fedele: è bastato anticipare e reiterare la preposizione retta dal verbo affinché i versi 403-06, che per capire dovevo rileggere più volte, si capiscano subito:
 
blood shaking my heart   
The awful daring of a moment’s surrender   
Which an age of prudence can never retract   
By this, and this only, we have existed
 
Per un ribollire del sangue nelle vene,
per il tremendo ardire di un attimo di abbandono,
che una vita di prudenza non potrà mai ritrattare,
per questo, e per questo soltanto siamo esistiti.
 
Questo è avvenuto dopo una consultazione con Fausto Ciompi, che in questa avventura cinematografica mi ha valorosamente sopportato. Ci ho messo un po′ a capire perché il solicitor del verso 409 fosse lean, cioè scarno, smunto o addirittura snello e sparuto, come riportano i traduttori. Finché mi è tornato in mente che un modo italiano di chiamare la morte è “la comare secca”. Ancora Ciompi mi ha trovato un paio di luoghi, in Shakespeare e in Middleton, in cui si parla di “lean death”, e allora quel “lean solicitor” è diventato un notaio disseccato (come una mummia) o, a voler essere spicci, scheletrico; insomma, mortuario.
In un caso ho modificato un verso di Eliot. Flebas viene apostrofato per la prima volta non col suo nome, ma con la marca di cappello che ha in testa: “Stetson!” Sia per farlo riconoscere subito, sia perché in testa non gli ho messo uno Stetson ma un berretto da marinaio, l'ho fatto invece apostrofare con “Flebas!”
Un′ultima cosa: ho riportato alla forma originale italiana i versi di Dante utilizzati in inglese da Eliot. Mi è parso ovvio.
 
Molto si è dibattuto sul finale del poemetto: ironico, disperato, un invito all ′autocontrollo, un′invocazione ′paolina′ o ′orientale′ alla calma che va al di là della comprensione, etc. Il finale del film appare più affermativo e vitale. Lo intendi come uno scostamento da Eliot o una forma di continuità?
Il finale è la parte che mi ha impegnato di più. L′impressione di un finale affermativo e vitale è esatta e dipende dal modo in cui ho scomposto e ricomposto il testo. Non credo di essermi discostato da Eliot. Ho condensato i momenti negativi nella giornata del racconto. Nel finale ho cominciato col tornare sul negativo, insistendo sulla prigione e sull′aridità. Poi ho trovato che una lunga battuta consentiva una svolta moderatamente positiva: la vita (vi si dice) è valsa la   pena  di  essere  vissuta  per  quel  momento  –   forse  l′unico – in cui abbiamo seguito la pienezza del cuore, anche se tutto il resto della nostra vita ha cercato di smentirlo e ritrattarlo. Un momento che appare irrilevante a tutti, forse perfino a noi stessi, che ci guarderemo dal ricordarlo nel testamento; ma quel momento c′è stato ed è irrevocabile. A questo proposito ho attribuito la domanda al narratore (“Che cosa abbiamo dato noi?” 401) e la risposta (402-09) a Tiresia, lo stesso Tiresia che in precedenza aveva rilevato la cecità dell′uomo, costretto ad accontentarsi di immagini fratte (sono versi che in Eliot si trovano verso l′inizio – 20-24 – e che ho spostato a questa parte finale). Tiresia ha qui un ruolo centrale. Fattogli ammettere che può esserci qualcosa di valido nella nostra vita, per quanto infinitesimale esso sia, ho riproposto alcune situazioni, già presentatesi nella loro disperazione, per accennare a una via d′uscita. Uno degli ultimi versi del poema (427; una citazione da Dante, in italiano) colloca l′azione nel Purgatorio. Ne ho preso spunto per far uscire le figlie del Tamigi dalla loro strettoia e farle arrampicare, con un tenue sorriso che ne accende la speranza, su per il monte del Purgatorio, su quelle stesse rocce aride che avevano angosciato il narratore (poco prima nel mio film, più tardi invece in Eliot). Segue l′incontro con la figura misteriosa, sul non riconosciuto Gesù sulla via di Emmaus; di questo incontro ho reso protagonista la triste coppia Lil e Albert, alla quale le due donnette del pub avevano tagliato i panni addosso. Anche per loro si accende un momento di speranza. La  barca  con  il  rematore  dell′inizio  chiude  ad  anello  la  narrazione.  L′unico rinvio che sono riuscito a fare al mito del re pescatore, mostrando le reti da pesca, si ha nel finale. L′invocazione alle rondini, non più ricordate per lo stupro ma finalmente ricordate nel poema stesso come segni d′amore cui si vorrebbe essere assimilati (428), e infine l′annuncio della pioggia dopo l′aridità (393-94), sono gli ultimi versi pronunciati. Tiresia compare come ultima figura umana.
Quel che non ho potuto fare per motivi esterni è far comparire insieme tutti o quasi tutti gli interpreti in più punti del finale; ci sarebbe voluta la disponibilità di tutti contemporaneamente a esserci e a dislocarsi in più luoghi, neanche facili da trovare. Sapevo fin dall′inizio che non sarebbe stato possibile.
 
Ora, a cose fatte e tenendo conto di questa tua ultima osservazione, se dovessi rigirarlo che cosa cambieresti del tuo film?
Niente. Ho lavorato con troppa partecipazione per considerare ora dei cambiamenti, anche solo col pensiero e in via ipotetica. È però concepibile un film diverso, che insista sulla città industriale, quindi adotti altra dinamica e intrecci più fittamente le vicende. Sarebbe possibile una Terra desolata urbanizzata. Ma non sarò io a girare questo film. A parte che non ne avrei i mezzi. E del film che ho fatto non cambierei niente.
 

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